LA PSICOFISIOLOGIA: L’IMPOSTAZIONE SCIENTIFICA DI AEPCIS
La psicofisiologia in quanto disciplina cerniera tra processi mentali e corporei si differenzia: dalla neurologia che studia la patologia del sistema nervoso; dalla psichiatria che inquadra le forme patologiche della psiche intesa come un organo; dalla neurofisiologia che esplora le funzioni del sistema nervoso a due livelli, biochimico-cellulare e dei comportamenti integrati (es. comportamenti istintivi) elicitati da specifiche stimolazioni distrettuali (ipotalamo, sistema limbico ecc); dalla neuropsicologia che esamina specifiche funzioni superiori quali linguaggio verbale, operazioni matematiche, di riconoscimento di figure integrate, attenzione, eccetera, in rapporto al substrato neurologico prevalentemente corticale, ma non solo, che le genera. Un ampio capitolo a parte è costituito dalla neurofarmacologia.
La psicofisiologia non solo non esclude tutte queste aree di indagine ma ne assimila i risultati, in altri termini, dà per scontato la validità e l’insostituibile utilità di dette discipline che diventano componenti del pensiero psicofisiologico. Un discorso però più ampio e articolato merita il rapporto con la psichiatria che affronteremo in altre occasioni.
Secondo noi il limite di queste discipline è però di essere quasi esclusivamente neurocentriche, di fondarsi, cioè, su una modellistica di tipo piramidale “discendente” che vede il Sistema Nervoso Centrale come regolatore assoluto dei meccanismi periferici, anche quando sono presi in considerazione per alcune specifiche funzioni gli effetti prodotti da un feed‑back retroattivo assumendo solo occasionalmente una modellistica di tipo cibernetico. In tale ambito la modalità di funzionamento del sistema endocrino ha fatto da battistrada.
Però a questo punto è opportuno rilevare come la stessa psicofisiologia presenti modellistiche diverse che si differenziano anche nettamente tra di loro. Per lo più tale disciplina è intesa come la scienza dei correlati fisiologici dei processi psicologici: per esempio il ricercatore psicofisiologo cerca di individuare l’eventuale presenza di correlazioni (intese inizialmente solo in senso statistico) tra processi cosiddetti psicologici quali per esempio le emozioni, e le attività cardiaca, respiratoria di conduttanza cutanea eccetera.
A questo proposito c’è da dire che se la ricerca di correlati tra funzioni rappresenta anche per noi un modo di procedere insostituibile nell’indagine sperimentale, in quanto semplice modello di raccordo tra mente e corpo, processi mentali e psicologici, mostra però alcuni vistosi limiti. Infatti, questo modello “dei correlati”, non è così semplice come appare a prima vista poiché esso contiene una modellistica implicita che merita di essere evidenziata. Per esempio, il ricercatore, nel caso citato, dà per scontata la distinzione tra processi mentali e processi fisiologici ritenendo che questi appartengano ‑a due universi nettamente separati: non fornisce una definizione operativa del concetto “emozioni” che considera come autoevidente; ha un’idea del corpo come di un “corpo‑macchina” i cui processi sono inquadrati in uno schema di funzionamento rigidamente meccanicistico semplificato, che si sviluppa in modo indipendente e qualche volta parallelo all’attività psichica. Ricordiamo incidentalmente che questa modellistica a nostro avviso estremamente rozza dei “piani paralleli” presenta alcune misteriose (da un punto di vista concettuale) eccezioni in cui si ipotizza che la psiche “invada” il corpo come nel caso della cosiddetta somatizzazione. Sempre incidentalmente dobbiamo dire che Franz Alexander ha ipotizzato la presenza di alcuni nodi funzionali che sciolgono in parte questo mistero, anche se il suo campo di applicazione, pur fondandosi su corretti riferimenti fisiologici ha interessato esclusivamente la psicosomatica, vale a dire un capitolo della patologia.
Come abbiamo accennato nell’editoriale dello scorso numero, la nostra modellistica psicofisiologica parte dalla concezione di psiche come un processo che integra diversi livelli funzionale (cellulare, tissutale, d’organo di sistemi, intersistemica fino alla costruzione dell’Io che rappresenta la massima integrazione funzionale psicofisica), (Mente, corpo, malattia, Ruggieri V. ‑ Il pensiero scientifico, 1987) . Quest’ottica dell’integrazione è utile anche per cogliere gli sviluppi della struttura dell’Io che non sintetizza soltanto funzioni ed attività corporee elementari, ma anche esperienze complesse quali per esempio quelle dell’apprendimento del linguaggio verbale, che, a loro volta, sono alla base sia delle specializzazioni funzionali del cervello che dello sviluppo dell’interazione sociale. Ma, secondo noi, tale processo di integrazione non va solo dal basso verso l’alto costruendo livelli funzionali di progressiva complessità, né solo dall’alto verso il basso come nella più tradizionale e schematica concezione neurofisiologica. Esso è di tipo circolare. t sulla base di questa concezione che noi abbiamo impostato una serie di ricerche che hanno anche avuto degli immediati corollari clinici.
A questo punto prima di accennare alle nostre linee di ricerca riteniamo utili alcune riflessioni epistemologiche che spiegano al lettore la nostra aderenza ai modelli di ricerca tradizionale.
La scienza moderna è nata nel momento in cui gli studiosi hanno deciso di considerare come “vero”:
A) solo ciò di cui si può fare esperienza diretta. Il termine “esperimento” ha questa radice terminologica concettuale profonda anche se l’immaginario collettivo lo riferisce prevalentemente all’apparato di osservazione e di manipolazione tecnologica.
B) che l’esperienza sia comunicabile e sperimentabile anche da altri.
Alla luce di queste premesse, si comprende come la quantificazione dell’esperienza, attraverso l’applicazione della matematica allo studio della “realtà”, sia estremamente utile sia per descrivere in modo puntuale l’esperienza stessa che per comunicarla. La quantificazione dell’esperienza è dunque un “modo” di raccontare l’esperienza stessa. Noi condividiamo pienamente tale punto di vista anche perché riteniamo che in ogni evento qualitativo, come abbiamo detto anche nell’editoriale del numero precedente, sia implicito una quantità. Per esempio, un padre chiede alla figlioletta: “mi vuoi bene?” la bambina risponde “si”, il padre “quanto?”, a questo punto la bambina rispondendo “tanto” allarga le braccia per indicare una grande quantità. Il padre: “e alla zia Evelina?”, la bambina “poco” ed indica il poco che definisce come un piccolo spazio racchiuso tra le sue manine ravvicinate. Qui dunque il concetto di bene viene automaticamente tradotto in dimensione spaziale misurabile. Le distanze indicate dalle braccia e dalle mani della bambina diventano la misura dell’evento qualitativo del voler bene a qualcuno. Ovviamente noi pensiamo che tutti gli eventi possono essere quantificati perché siamo consapevoli del rapporto dialettico tra quantità e qualità (qualità come sintesi di quantità).
Fa parte infatti della creatività scientifica la capacità di inventare modalità di misurazione che quantifichino eventi cosiddetti qualitativi. Riteniamo anche che esistono diversi livelli e forme di comunicazione e che non sia sempre necessario anzi talvolta inutile un’ossessiva quantificazione: ciò che è importante per la scienza è l’esperienza, la sua comunicazione e la possibilità di sperimentare anche da altri lo stesso evento, non la quantificazione di per sé. Infatti nell’ambito della patologia la descrizione delle alterazioni della morfologia cellulare, per esempio delle cellule tumorali, è frutto di osservazioni assolutamente scientifiche anche se qualitative.
Tra i pilastri della scienza moderna bisogna aggiungere il concetto di dubbio sistematico cartesiano: secondo questo atteggiamento mentale che richiede una riscrittura di tutto l’universo esperienziale in termini scientifici, si parte dal presupposto che vero sia soltanto ciò che può essere documentato sperimentalmente. Ma poiché non si può sperimentare “tutto”, esistono delle isole di verità che galleggiano in un mare di indeterminatezza conoscitiva. Si creano così due piani di verità, uno scientifico e autenticamente vero e uno che potremo definire in senso lato soggettivo, opinabile, mutabile.
Consideriamo ora un altro punto. Nei vasto orizzonte della scienza ci sono, in rapporto all’oggetto di studio, diverse modalità dì approccio che definiscono in modo differente l’atteggiamento di dubbio sistematico, per esempio il tormento dubbioso in biologia viene messo a tacere dal fatto che alcuni eventi sono considerati autoevidenti e che quindi è sufficiente descriverne la forma e la presenza per riconoscerne la realtà e verità. Basti pensare allo studio dell’anatomia per capire come, per la conoscenza della struttura del corpo umano, non sia necessaria la costruzione dì particolari griglie interpretative: per esempio, un muscolo e la sua attività sono e sembrano essere autoevidenti. Per altri ambiti di ricerca, come nel caso della fisica atomica, è necessario un “modello di lettura”, una griglia interpretativa senza la quale il fenomeno osservato non è comprensibile. t chiaro anche che la griglia stessa si costruisce sulla base delle prime evidenze e diventa sempre più complessa e articolata mano a mano che emergono nuovi risultati.
Non intendiamo qui affrontare l’ampio tema tra modelli e sperimentazioni, ma metterne a fuoco essenzialmente un aspetto perché utile ai fini del nostro discorso che è quello dell’autoevidenza. Infatti noi sosteniamo che eventi appaiono autoevidenti nella misura in cui l’osservatore li legge utilizzando una modellistica implicita di cui non è sempre consapevole. Per esempio se consideriamo la meccanica galileiana ci accorgiamo che essa è costruita su alcuni presupposti teorici che pre‑esistono rispetto alla sperimentazione stessa. Infatti ciò che cambia in Galileo è la rappresentazione di base della natura che gli consente di operare alcune “astrazioni” (anche se a prima vista non sembrano tali). Egli infatti “libera” la materia da un pervasivo animismo e decide di considerare un corpo come una struttura inerte su cui agiscono forze dall’esterno. Questa modellistica è diventata con il tempo come implicita ed ovvia per tutti gli osservatori, ma la sua formulazione ha rappresentato inizialmente un salto concettuale nell’approccio osservativo. Rivolgendoci ora allo studio della biologia e della psicobiologica, ci rendiamo conto che anche in questo campo, come abbiamo già accennato, siamo in presenza di una modellistica implicita di tipo riduttivistico che considera il corpo una macchina semplificata.
Finché non ci sarà una modellistica che sia in grado di comprendere la complessità dei processi psicobiologici non si potrà accedere a tale oggetto di studio in modo scientifico adeguato. Ciò che è importante nel campo della biologia e richiede un’adeguata modellistica è l’analisi delle interazioni tra i vari processi elementari. Nel precedente editoriale abbiamo parlato della soggettività come oggetto di studio negletto dalla ricerca biologica, qui intendiamo entrare nello specifico delle ipotesi circa la funzione fisiologica che la soggettività ha nel contesto dell’accadere umano. A questo proposito ricordiamo che il nostro gruppo di lavoro percorre diverse linee di ricerca inquadrate in diverse categorie concettuali distinte ma necessariamente integrabili tra loro.
Il primo orientamento, come abbiamo detto in altre occasioni, si riferisce alla rivoluzione copernicana in biologia in cui si enfatizza il ruolo che la periferia del corpo ha nel modulare i processi del sistema nervoso centrale. Tale griglia concettuale applicata al modello delle emozioni consente di rivisitare, in modo adeguato, la teoria di Lange (1887) e James (1890), poiché consideriamo l’emozione come una risposta a stimoli emotigeni innati e/o appresi che richiedono inizialmente una decodificazione, talvolta automatica o inconsapevole, talvolta frutto di un elaborato processo cognitivo che si sviluppa prevalentemente in area corticale ed accende, attraverso particolari circuiti sinaptici, i sistemi sottocorticali specializzati quali l’ipotalamo, il sistema limbico, etc.
In queste aree encefaliche si formulano dei programmi che interessano la periferia del corpo sia sul versante vegetativo che su quello somatico. La letteratura psicologica si è molto soffermata sull’aspetto mimico-espressivo a sottolinearne il ruolo di segnale relazionale per cui si distinguono diverse pattern emozionali che hanno un significato di comunicazione sociale di contenuti cosiddetti interni. Scarsa o nessuna attenzione è stata posta invece alle variazioni di tono muscolare che si sviluppano per lo più nella direzione dell’aumento di tensione. t questa variazione di tensione che, sintetizzata dal Sistema Nervoso Centrale, costituisce la base dell’esperienza sentimentale senza la quale il quadro di risposta “emozione” praticamente non esiste. Il sentimento quindi è una parte della risposta “emozione” ed ha un ruolo fondamentale in quanto autosegnale modulatore del comportamento.
Le critiche mosse alle teorie di Lange e di James hanno considerato non le variazione toniche di diverse aree corporee ma essenzialmente: a) le informazioni di ritorno mimico‑espressive; b) il sistema motorio in quanto produttore di movimenti, quindi di contrazioni isotoniche. Noi insistiamo nel sostenere che nella genesi del sentimento siano ampiamente coinvolti diversi distretti corporei e che le variazioni si riferiscono alle oscillazioni di tono ed alle contrazioni di tipo isometrico. A questo punto si comprende come la periferia del corpo, generando il sentimento, produca un autosegnale che a sua volta ha il ruolo di modulatore del comportamento. La presenza del sentimento rappresenta un salto funzionale per cui dall’attività corporea si passa ad una dimensione soggettiva di tipo psicologico che è alla base di esperienze personali e relazionali. Presupposto dell’esistenza del sentimento è la presenza di un apparato sensoriale interno identificabile con la struttura psicofisica dell’Io che sia in grado di avvertirlo. Senza un soggetto che lo avverte il sentimento non c’è: un esempio di ciò è dato dall’esperienza del dolore che è un processo di natura psicobiologica di cui si conoscono i meccanismi fondamentali neurologici e chimici in rapporto all’applicazione di stimoli dolorifici. È comunque ben noto che se non siamo in presenza di un soggetto che avverte dolore, il dolore non c’è, anche se sono presenti tutti i meccanismi biologici attivati che ne sono alla base: è quanto si verifica negli interventi chirurgici in anestesia in cui è possibile tagliare il corpo in profondità senza provocare dolore.
Questa modellistica, dunque, basata sulla circolarità dell’interazione tra Sistema Nervoso Centrale e Periferia del corpo (che ha addirittura quest’ultima la nobile funzione di produrre il sentimento) è un esempio di modellistica copernicana in biologia. In tal modo cominciamo ad intravedere come la periferia del corpo diventi, oltre che un esecutore, un modulatore dei processi mentali.
Le linee guida di un secondo settore di ricerca si riferiscono ai meccanismi inibitori delle emozioni. In questo ambito abbiamo individuato accanto ai più tradizionali meccanismi di inibizione centrale (a livello sinaptico) meccanismi di inibizione periferica legati alle contratture muscolari che interrompono ed alterano il quadro espressivo delle emozioni. Tale concetto della “inibizione da contrattura”, che costituisce un meccanismo ad azione retroattiva con funzione di stop che inibisce od altera i centri della programmazione del quadro “emozione”, si è rilevato estremamente predittivo non solo in ambito di ricerca ma anche in ambito clinico. Infatti se si scioglie una contrattura inibitoria a si può osservare la ricomparsa dell’intero quadro emozionale cronicamente “bloccato”. Tale ricomparsa si riferisce tanto al versante espressivo che a quello sentimentale: un esempio tipico è dato dall’esperienza emozionale del pianto bloccato che ricompare dopo che sono state sciolte alcun contratture in distretti pertinenti.
Il terzo orientamento si riferisce essenzialmente agli studi sull’immaginazione ed ai suoi rapporti con la percezione visiva. Numerose ricerche del nostro gruppo di lavoro hanno contribuito alla verifica delle ipotesi di un coinvolgimento attivo degli occhi nei processi di immaginazione visiva. In altri termini il processo immaginativo sarebbe identico a quello percettivo differenziandosi da questo solo per l’incipit: nel processo percettivo visivo la modificazione retinica, alla base della rappresentazione corticale, sarebbe evocata, da stimoli esterni nella percezione e da circuiti neurologici interni autoevocati nell’immaginazione.
Il risultato di tale concezione ha come punto centrale il fatto che tanto gli eventi percettivi che quelli immaginativi hanno in comune, sul piano fisiologico, la rappresentazione, che è ovviamente prodotta, nell’ultima fase processuale, da neuroni corticali. La rappresentazione immaginativa assume secondo noi una funzione di guida nell’esplorazione della realtà influenzando i processi percettivi. Infatti i singoli eventi percettivi cosiddetti reali devono sempre essere collocati in un contesto rappresentazionale di tipo immaginativo che fornisce loro senso e significato. In tal modo i vaghi ed astratti schemi cognitivi ipotizzati da Neisser come modulatori della percezione, acquistano una concreta valenza fisiologica diventando immaginazione modulatrice della percezione e della esperienza.
Nell’ambito della ricerca sulla immaginazione sono emersi nei nostri studi dei risultati estremamente interessanti di difficile interpretazione se considerati alla luce di un’ottica strettamente newtoniana. Infatti chiedendo a dei soggetti di immaginare ad occhi aperti e di proiettare tali immagini attraverso una lente zoom su uno schermo bianco assolutamente glabro, si è osservato che i soggetti rilevavano un repentino ed imprevisto ingrandimento dell’immagine mentale se lo sperimentatore azionava lo zoom all’insaputa del soggetto nella direzione dell’ingrandimento. Poiché la lente era collocata all’esterno rispetto all’occhio, risulta difficile capire su quale elemento retinico o su quale sistema di raggi essa abbia agito.
Tutto questo si colloca nell’ambito della concezione della percezione come di un processo attivo che va oltre l’idea dell’occhio inteso come una macchina fotografica passiva; il ruolo attivo della percezione non si riferisce soltanto alla ricerca attiva dell’oggetto, alla messa a fuoco, al tempo di esposizione, alla sensibilità della pellicola (retina) all’apertura‑chiusura del diaframma, ma anche a meccanismi proiettivi che collocano gli eventi percepiti corticalmente, nello spazio esterno. Su questo modello euristico che chiameremmo post-newtoniano, sono in corso diverse ricerche sperimentali.
Le tematiche newtoniane ricompaiono nel nostro gruppo di ricerca nello studio e nell’analisi dell’organizzazione attiva del peso. In questo caso noi mettiamo in evidenza alcuni aspetti che non erano stati considerati dalla meccanica galileiana. Se come abbiamo detto quest’autore tendeva a considerare un corpo come una struttura inerte su cui agiscono forze esterne, noi riteniamo che invece in ambito biologico il corpo umano abbia in sé i meccanismi antigravitari che nella stazione eretta agiscono opponendosi e modulando la forza peso. Le strutture attive in questo processo sono costituite dai muscoli.
Questo inquadramento teorico ci consente di entrare, attraverso l’analisi dei meccanismi antigravitari, nello studio dell’organizzazione attiva delle posture. In questo contesto i meccanismi antigravitari sono collocati in un sistema di regolazione non soltanto di tipo meccanico periferico, ma in un più ampio quadro che presuppone l’interazione di diversi livelli processuali del sistema nervoso centrale. Per esempio la postura si colloca nell’ambito di precise coordinate spaziali che presuppongono un’autorappresentazione ed una rappresentazione della realtà esterna. In questo senso il peso e la sua gestione diventano un tema non più soltanto di natura fisica ma di natura psico‑biologica.
Un’ulteriore linea teorica si riferisce allo studio dei ritmi e dell’organizzazione temporale degli eventi corporei mettendo particolarmente a fuoco i rapporti tra forme di attività definite in rapporto alla loro componente temporale (ritmi, velocità ecc.) e organizzazione delle strutture corporee. Tale analisi ci consente per esempio di individuare differenti livelli di attività tra aree corporee funzionalmente simili e collocate una vicina all’altra. In tal modo è possibile prendere in considerazione l’organizzazione centrale degli eventi corporei definendone l’armonica coerenza o l’incoerenza funzionale riferita al corpo come ad un’unità.
Infine un’ultima linea di ricerca, fondamentale per l’analisi della struttura dell’Io, si riferisce allo studio del rapporto tra autorappresentazione (immagine corporea) e organizzazione della fenomenologia espressiva del corpo. In questo ambito, partendo dal presupposto che ogni evento corporeo sia in qualche modo autorappresentato a livello centrale, l’autorappresentazione globale unificata, che contribuisce alla costruzione dell’immagine di sé, diventa non soltanto un processo rappresentazionale, in parte inconscio e in parte consapevole, ma anche un sistema di modulazione attiva della attività corporea medesima, operando un’ordinata gerarchizzazione funzionale di ritmi ed attività. Tale autorappresentazione diventa il nodo organizzatore di tutta l’attività corporea e di tutte le sue sottofunzioni, da quelle biologiche reflessogene più elementari, a quelle più complesse quali per esempio il linguaggio verbale, l’emozione ed i singoli processi cognitivi ed immaginativi. In altri termini diventa l’asse portante della struttura dell’Io.
In questo stesso contesto però le nostre indagini esaminano la fenomenologia degli atteggiamenti postural‑espressivi (visuo-postural-spaziali) i quali, da una parte sono lo specchio periferico dell’autorappresentazione e dall’altra creando intrecci periferici di attività, contribuiscono all’integrità dell’Io e all’esperienza del piacere di esserci. Tali intrecci periferici, realizzati essenzialmente attraverso specifiche interazioni muscolari, danno al corpo un’unita ed una compattezza formale che è rispecchiata a livello corticale dall’organizzazione dell’immagine corporea. Anche in questo caso siamo in presenza di una modellistica di tipo circolare‑copernicana che unifica a doppio relais sistema nervoso centrale e periferia. In questo ambito abbiamo scoperto il ruolo di interessanti funzioni del sistema muscolare, quale quella di legare parti corporee e di produrre il sentire subiettivo, che vanno ben oltre il ruolo fondamentale tradizionalmente loro assegnato di contrazione ai fini della produzione del movimento e dell’attività tonica nel mantenimento dell’equilibrio posturale.